venerdì 15 aprile 2011

La valutazione dei docenti: problemi e proposte

Dario Costantino



Oggi più che mai la Scuola diviene teatro di scontro duro e aspro tra forze politiche e interessi che nulla o poco hanno a che vedere con il successo formativo e la crescita culturale della società e delle giovani leve. Il problema non viene affrontato correttamente perché resta legato a logiche meramente economiche e viene fondamentalmente analizzato sotto l’aspetto formale. A pensarci bene, è un “tòpos politico”: riformare la scuola, poiché non si riesce a riformare la società1. L’impotenza e i compromessi della politica generano una vim re-formandi fortissima, che da troppo tempo investe la scuola, ma non riesce concretamente a innovarne i contenuti, la metodica di insegnamento e l’azione educativa dei docenti. E si tratta sempre di riforme anomale, perché “devono essere fatte senza oneri aggiuntivi a carico dello Stato”. È come se noi volessimo rifare tutto l’impianto elettrico di casa nostra – a norma CEE – senza “alcun aggravio di spesa sul nostro stipendio”, al massimo “offrendo un caffè” all’elettricista.
Ecco che in questo clima di incertezza, molti docenti preferiscono guardare ad altro, rifugiandosi nella dimensione onirica della loro professione, in quella vocazione missionaria al martirio, perdendo di vista l’unica cosa che li avrebbe potuti aiutare: la coscienza del proprio ruolo e l’importanza del proprio contributo educativo indispensabile per la società.
Nel 1906 il Segretario dell’Associazione Magistrale in un suo intervento pubblico riassumeva così l’idea del docente presente nella società d’allora: “Noi accetteremo e il sereno e la pioggia e le poche gioie e le molte afflizioni”»2. Da allora molta acqua sotto i ponti è passata.
È fuor di dubbio l’importanza della valorizzazione del personale docente, in termini di qualità e di quantità di lavoro, ma è necessario interrogarsi sulle corrette modalità di attuazione di una tale valutazione.
In principio – una decina di anni fa – fu il “concorsone” del Ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer. L’idea era positiva, di “docimologia di stampo anglosassone”, ma naufragò rovinosamente, in un malcontento generale, tra manifestazioni di piazza e disagi sociali. In effetti i tempi non erano maturi, l’impianto di quel concorso atipico non era sicuro, scatenava guerre tra poveri, e soprattutto troppo confuso sulle modalità di rilevazione dei dati, su cui basarsi per una reale e seria valutazione dell’attività didattica, o come alcuni dicono performance, dei docenti. Quest’ultimo è termine ricorrente e molto amato nella riforma della Pubblica Amministrazione, che l’attuale ministro Brunetta sta portando avanti. Vengono richiamati diversi elementi che si intersecano reciprocamente: padronanza della disciplina, competenza relazionale, didattica e valutativa, e infine etica professionale. Il senso del progetto sperimentale per la valutazione dei docenti è presto chiarito: individuare e premiare l’attività didattica degli insegnanti più meritevoli. Fenomeno complesso che non può essere unidirezionale, ma necessita dell’interazione di altri indicatori di merito. Il compito è molto delicato in quanto la presenza di un nucleo di valutazione potrebbe fare passare l’idea di una logica di accaparramento di favori, o ingenerare conflittualità con determinati soggetti (preposti a questo compito), primo fra tutti il dirigente3, in poche parole un ulteriore scivolamento dalla figura di preside-dirigente a “preside-sceriffo” e ancor peggio “preside-padrone”. Per la cronaca va detto, che, spesso, pur mancando nelle nostre istituzioni scolastiche le competenze valutative necessarie per gestire un tale processo, si sono registrate positive esperienze, in cui molti istituti hanno sperimentato il portfolio delle competenze, con snellezza e agilità, o un’intensa e proficua attività progettuale curriculare ed extra-curriculare.
Certo in un oceano di incertezza, una domanda sorge spontanea: “Chi valuta i valutatori?”
Le istituzioni devono tastare concretamente il polso al percorso di crescita, che il docente attiva per i suoi allievi. L’impegno sulla crescita professionale e l’innovazione, l’orientamento al successo formativo degli studenti, la disponibilità al miglioramento del funzionamento complessivo della scuola sono aspetti fondamentali della professione docente.
Innanzitutto bisogna pensare lungo e soprattutto con i piedi per terra. Visto l’elevato numero di docenti, la lentezza burocratica congenita alla nostra P.A., è da escludere – come invece sembra far credere il D.Lvo 150/2009 – di poter parlare di una “valutazione annuale” della classe docente. Bisognerebbe optare per una selezione triennale, che darebbe più tempo a tutti gli agenti di questo processo di preparasi al meglio. Se conquisti la posizione di “docente efficace” (o come lo si voglia chiamare), cioè se sei nella prima tranche del 25% o nella seconda tranche del 50% dei premiati di cui parla il D.Lvo Brunetta, lo rimani per un triennio. In realtà la valutazione e/o l’autovalutazione è un fenomeno complesso, indice di crescita umana e professionale, di desiderio di mettersi i discussione, di lanciarsi con coscienza nell’agone del rinnovamento culturale necessario al nostro Paese.
Gli insegnanti italiani, figli di una generazione post-moderna, delusi dal retrivo senso di un cambiamento mai avvenuto, sono stati così tante volte conquistati, attaccati e imbavagliati nello svolgere della nostra storia, che hanno perso il senso della collettività. Subito fuori la porta di casa nostra c’è un territorio che non ci appartiene, non è nostro ma dello Stato (che non si capisce essere un’altra parola per dire noi e gli altri). Tanti anni fa, al sud, il compianto prof. Bellafiore, illustre storico dell’arte, raccontava che almeno fino agli anni ’60/’70 del secolo scorso, soprattutto nei “bassi” palermitani dove abitava il popolino, vigeva l’usanza – per le madri di famiglia o le casalinghe – di spazzare con la scopa, di pulire lo spazio immediatamente prospiciente l’ingresso di casa (4 o 5 metri quadri in tutto) e poi spedire con un sol colpo tutta l’immondizia o la polvere in strada (oppure verso destra o verso sinistra, verso gli ignari vicini, che poi, a loro volta, avrebbero fatto la stessa cosa con gli altri co-abitanti della strada), perché la strada non era cosa loro, non avevano il concetto di “cosa comune”. Così, per grandi linee, vale anche per la scuola italiana e i suoi principali protagonisti: gli insegnanti. La maggior parte di noi è arrivata a scuola o dopo un iter a dir poco travagliato, o dopo diversi lustri di supplenze in giro per il Paese. Pochi quelli che “giovani” si sono seduti in cattedra. Tutti avrebbero sperato o voluto una legge ad hoc per il proprio “caso umano”, pur di non soffrire il terribile precariato decennale. Ognuno avrebbe voluto qualcosa di specifico per sé. Si è, in pratica, allentato il «senso del comune, del gruppo, della collettività». Scarseggia la fiducia in un centro di diramazione di novità incontrollabili e di difficile decifrazione, che modificano il nostro lavoro in continuazione, portandolo verso una pesante burocratizzazione. Il punto focale invece è che la professione di insegnante è una professione atipica4, che abbisogna, per essere valutata correttamente, di una procedura complessa e atipica. Proporrei di incrociare il processo di valutazione dei docenti con le recenti ricerche sul burn out svolte dal medico Vittorio Lodolo D’Oria5.
Dalla ricerca di D’Oria (anno 2010) – testata su 5264 insegnanti interpellati – viene fuori che il 73% degli insegnanti si sente stressato (specialmente se donne, e se ultra cinquantenni). A causare questo malessere sono gli studenti (26%), i genitori (20%), i colleghi (20%) ecc. Un terzo del campione, poi, dichiara di essere stato sottoposto a mobbing (28%): il 22% ritiene di averlo subito in passato, il 5% crede di essere stato verosimilmente “mobbizzato”; l’1% si considera attualmente sottoposto a mobbing. Ma a rendere la situazione esplosiva ha contribuito anche il cambiamento delle strutture sociali. La famiglia, una volta, era «l’ammortizzatore» di compensazione delle tensioni accumulate sul posto di lavoro. Ora la cellula familiare non svolge più questa funzione, perché non ne è in grado: «La famiglia, quale punto di riferimento per la società e per lo stesso insegnante, diviene sempre più debole; se ne formano di meno, con pochi figli e sempre più instabili»6. Il clou si tocca quando si scopre che per i professori intervistati la scuola è all’ultimo posto come fattore incidente sull’educazione e la personalità dei giovani (più appeal hanno i genitori 84%; le nuove tecnologie 12%; le amicizie 3%; e per ultimo la scuola 1%).
Analizzando bene le sopraesposte informazioni, i dati della ricerca, viene fuori – come frame generale – un corpo docente che non ha fiducia nel risultato della propria azione educativa, essendo troppo impegnato a “difendersi” da genitori petulanti, alunni esigenti e difficili, mobbing, e colleghi che, per usare un eufemismo, “non agevolano sul lavoro”.
Come pretendiamo che queste persone, questi professionisti, con la loro dignità, con la loro professionalità costata tanta fatica, accettino, ex abrupto, di essere valutati da una commissione interna all’istituto – dove magari si trovano a lavorare male – e secondo parametri che sono quasi del tutto esterni e/o indipendenti dalla loro volontà (gradimento da parte dei genitori, aleatorio rendimento scolastico dei propri allievi, ecc.)?
Probabilmente sarebbe necessario un periodo di transizione7 nel quale sperimentare seriamente un nuovo sistema di valutazione del merito dei docenti. Una possibile proposta: valutazione triennale (come già detto) affidata da una Commissione Provinciale di referees composta ad hoc magari da dirigenti tecnici, docenti e il capo dell’USP o suo delegato. Per il primo triennio la valutazione dovrebbe essere su base volontaria, cioè i professori che vorranno adire agli aumenti stipendiali dovranno fare espressamente domanda al loro dirigente scolastico di essere valutati e presentati alla Commissione Provinciale, che assegnerà il punteggio finale, che varrà per la classifica generale provinciale di quel 25% o 50% dei docenti, che, secondo il D.Lvo 150/2009, otterrà tutta la quota premio per il merito stanziata dal Governo. Se i docenti non vorranno essere valutati, non faranno domanda e manterranno i propri emolumenti, ma “senza alcuna premialità”.
Il dirigente scolastico di ogni singolo istituto darà un punteggio – per esempio su scala 1/5 – sul rendimento del docente nel periodo di valutazione prescritto, considerando la precisione nell’espletamento dei propri incarichi, la collaborazione offerta dal docente per il buon funzionamento della scuola di titolarità, il rendimento scolastico generale delle classi affidategli, eventuali attività di formazione e/o particolari attività di potenziamento a cui il docente ha partecipato. Questa relazione/scheda del dirigente scolastico della scuola di provenienza, presentata alla Commissione Provinciale, avrà un peso al massimo del 50% sul voto definitivo, che la suddetta Commissione assegnerà al docente, perché – se si bada bene – si tratta di elementi valutatori “esterni” (per intenderci quelli che per ora fanno arricciare il naso a moltissimi docenti seri, che fanno ogni giorno il loro lavoro con correttezza e amore) e, quindi, che presentano un elevato grado di aleatorietà.
Come si determinerà l’altro 50% del voto? Sicuramente con valutatori “interni”, e, quindi, che dipendono direttamente dalla volontà del docente.
Ma è necessario un passo indietro. Noi di certo ci troviamo in un contesto molto diverso da quello tedesco. Il sistema scolastico-educativo tedesco8 è complesso. Ogni Länder ha le sue peculiarità e un insegnante guadagna più del doppio di un suo pari italiano. La struttura dipartimentale in cui lavora funziona correttamente in ogni scuola. Il dipartimento è dotato di risorse finanziarie autonome e l’orario di servizio è pari a qualunque altro impiego statale. Gli insegnanti tedeschi fanno regolarmente lezioni frontali d’aula, recuperi pomeridiani per gli allievi e anche ricerca-azione nel proprio istituto. Le scuole possiedono ampie biblioteche e c’è un forte sostegno alla ricerca, in tutti i sensi.
Chiaramente questa non è la situazione italiana, ma nella valutazione del rendimento e della performance di un docente non si può prescindere dalle sue attività di perfezionamento, ricerca e socializzazione dei risultati ottenuti alla comunità scientifica di riferimento.
Tornando agli elementi valutatori “interni”, possiamo sicuramente proporre che l’altro 50% del voto debba dipendere dalle pubblicazioni scientifiche che il docente, nel triennio di riferimento, produce, dalla sua partecipazione ad attività di perfezionamento di livello universitario a cui prende parte, e in generale da ogni attività di eccellenza e ricerca nazionale e internazionale in cui è coinvolto.
Un voto così complesso e atipico, ma con un grande range di azione (che comprende fattori interni ed esterni all’attività del docente, che si sottopone volontariamente a valutazione) potrà certamente avere le carte in regola per tentare di cogliere quella specificità della performance, che è tipica della professione docente.
La terzietà della Commissione Provinciale di valutazione del merito dei docenti farà il resto e darà, poi, a tutti garanzia di onestà di giudizio.
Ragionare concretamente in termini di autovalutazione, “riconoscimento del merito, misurazione delle performance, miglioramento e/o qualificazione dell’attività didattica vuol dire accettare una sfida culturale ed educativa9, e sviluppare, in una dimensione operativa, saperi e competenze, rispondenti a reali e attuali esigenze formative. Gli insegnanti, possibili soggetti di cambiamento, sono, nella dimensione sistemica, strumenti di dialogo sociale all’interno del nostro Paese. È necessario un coinvolgimento a 360° degli attori del cambiamento, che, con sensatezza e solidità progettuale, condividano un comune progetto di rinnovamento.
La categoria docente non può né deve essere tetragona al cambiamento, ma cogliere aspetti positivi e negativi di un’operazione culturale (la valutazione e autovalutazione del proprio operato) che comporta l’assunzione di una responsabilità umana e culturale di strategica importanza per l’efficace crescita del nostro Paese.


1 Cfr. G. Bonetta, Storia della scuola e delle istituzioni educative, Firenze, Giunti, 1997; e N. D’Amico, Storia e storie della scuola italiana, Bologna, Zanichelli, 2010.
2 Cfr. Agenda Scuola 2003-2004, Novara, De Agostini, 2003.
3 C. Xodo, Il dirigente scolastico. La professionalità pedagogica tra management e leadership, Milano, FrancoAngeli, 2010.
4 F. Frabboni, La scuola rubata, Milano, FrancoAngeli, 2010.
5 Per approfondimenti e curiosità vd. La Tecnica della Scuola, 25 gennaio 2011, n. 10, p. 57. Partendo dal suo campo d’azione privilegiato, la Lombardia, il Lodolo D’Oria è diventato un’autorità in materia su tutto il territorio nazionale.

6 Ibidem.
7 È proprio di questi giorni la notizia che la sperimentazione ministeriale sulla valutazione del merito della performance dei docenti, proposta alle scuole di alcune province italiane, è stata un flop e che il MIUR procederà, comunque, con un decreto che stabilirà – senza alcun confronto con la base docente – la modalità di procedere nella valutazione degli insegnanti.
8 Cfr., per esempio, C. Fuhr, Deutsches Bildungwesen seit 1945, Bonn, Inter Nationes, 1996; K.E. Jeismann, Bildung, Staat, Gesellschaft im 19. Jahrhundert: Mobilisierung und Disziplinierung, Stuttgart, Steiner-Verlag Wiesbaden, 1989.
9 F. Frabboni, G. Wallnofer, a cura di, La pedagogia tra sfide e utopie, Milano, FrancoAngeli, 2009.